“Ho perso la mia vita”. Appoggiato a una parete e guardandomi fisso negli occhi Luca pronuncia questa frase più volte, e a ogni ripetizione ho l’impressione che i suoi occhi si gonfino sempre più come se fosse realmente reduce da giorni di pianti, e lì mi sento impotente, inerme davanti a una sofferenza che non troverà mai pace – probabilmente – neppure a cammino concluso.
Intorno al 1968, a Roma, un gruppo di persone cercava di dare risposte ad alcuni problemi che ormai rappresentavano vere e proprie piaghe della società, la dipendenza dalla droga, dall’alcol e dal gioco d’azzardo. In poco tempo, grazie all’aiuto della Santa Sede e di poche stanze donate da Papa Paolo VI, nacque così il Centro Italiano di Solidarietà di Roma (CeIS) guidato dall’insegnamento morale e pratico di don Mario Picchi, sacerdote che ha riassunto la realtà del CeIS nella filosofia “Progetto Uomo”. Si tratta di un “programma” che, nella sostanza, intende promuovere lo sviluppo e la crescita dell’individuo affinché ogni persona raggiunga o recuperi la sua pienezza e torni alla realtà sociale con tutti i suoi diritti e doveri.
Ciò che infatti accomuna tutti gli ospiti del CeIS è la solitudine, la mancanza di affetto da parte delle persone più care, che immancabilmente si trasforma dapprima in noia e poi trova l’unica via di scampo nella droga, o in qualsiasi altra forma di dipendenza che lacera il corpo pur mantenendo lucide le coscienze.
Dal 1979 ad oggi, infatti, l’azione del CeIS si concentra principalmente sulla persona, sugli uomini e le donne, ragazzi e ragazze, madri e padri, figli e figlie, che chiedono aiuto per uscire dalla dipendenza che ha rovinato loro e ai propri familiari la vita. Questo è il caso di Luca, parrucchiere romano di 42 anni che una volta diventato papà di una bellissima bambina ha voluto riprendersi in mano quella vita che altrimenti sarebbe stata brutalmente bruciata dall’uso di cocaina. “Non ho mai avuto una vita felice, sin da bambino, e oggi ancora vivo due vite diverse: al mattino esco di casa prestissimo per andare a lavoro e la sera quando rientro non vivo la mia famiglia perché mi sono fatto e non ho il coraggio di guardare negli occhi mia figlia. Lei capisce quando non sono in me, una volta venendo a trovarmi qui mi ha detto: ‘Papà quando torniamo a essere una famiglia?’”. Non completa il suo racconto Luca, si emoziona, singhiozza, sembra pentito di aver dato un colore così oscuro alla sua vita ma a volte, come egli stesso spiega, la dipendenza dalla droga sottomette, ti ruba l’identità, ti rende prigioniero, allontanando qualsiasi persona che ti vuole bene.
Luca vive ormai da mesi presso il presidio San Carlo, da sempre considerato il laboratorio del CeIS, situato nel comune di Marino in prossimità della cittadina di Castel Gandolfo. Si tratta della sede che Papa Francesco ha visitato a sorpresa il 26 febbraio scorso, nell’ambito dei venerdì della misericordia, per testimoniare la sua vicinanza alle persone che stanno lottando contro la dipendenza dalle droghe. Il Papa, che ha incontrato i 60 ospiti della comunità terapeutica San Carlo, aperta nel 1979 ai Castelli Romani da don Mario Picchi, ha stretto la mano anche a Luca e abbracciandolo gli ha sussurrato: “Abbi fede e coraggio”.
“Fede e coraggio nella vita sono del resto i principi su cui si fonda Progetto Uomo”, spiega la dottoressa Daniela Laureti, responsabile della struttura CeIS di San Carlo. “La giornata tipo dei nostri ragazzi – prosegue illustrando le diverse fasi della giornata tipo e facendoci visitare la struttura e tutti gli spazi condivisi dai ragazzi – inizia con un incontro al mattino che dura circa trenta minuti. L’incontro, a cui partecipano tutti, si basa sulla motivazione a rimanere in comunità, esso dà l’indirizzo della giornata e aiuta l’operatore a capire l’umore della casa”.
Aprendo le porte ad alcuni giornalisti, infatti, Roberto Mineo e Patrizia Saraceno, presidente e vice presidente del CeIS, hanno voluto mostrare come “Progetto Uomo” nasca dal desiderio di “amare”. Amare tutte le creature e il loro valore, senza giudicarle, ma rispettandole e aiutandole. Il suo significato nel XXI secolo – precisa Mineo rievocando le parole di don Picchi – rimane intatto e si pone anzi con rinnovato vigore dinnanzi alle tante sfide riguardanti le nuove generazioni e la sofferenza di uomini e donne di ogni età. Il CeIS ha sempre cercato di avere una visione ‘corretta’ delle persone. Non si tratta di una terapia o di un metodo ma di dare valore alla propria identità rispettando nello stesso tempo quella degli altri, promuovendo il dialogo e la condivisione”.
Alessandro Notarnicola
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