Siamo di fronte a una vicenda epocale, che per certi aspetti si fa dramma e reca con sé anche violenze. Ma le grandi migrazioni sono sempre esistite. L’Italia, come altri Paesi, è destinata a ospitare un crescente numero di stranieri, comunitari e no. Rafforzare la nostra identità culturale, religiosa, linguistica per confrontarsi con gli altri con rispetto, evitando che l’integrazione diventi confusa omologazione.
Un anno fa, sul retrocopertina del nostro “delfino”, abbiamo riportato un testo che gira in Internet e che molti ormai conoscono: “Il tuo Cristo è ebreo. La tua democrazia è greca. La tua scrittura è latina. I tuoi numeri sono arabi. La tua auto è giapponese. Il tuo caffè è brasiliano. Il tuo orologio è svizzero. Il tuo walkman è coreano. La tua pizza è italiana. La tua camicia è hawaiana. Le tue vacanze sono turche, tunisine o marocchine. Cittadino del mondo, non rimproverare il tuo vicino di essere straniero.”
Avremo potuto aggiungere un elenco ancora lungo: il nestro cacao è boliviano o peruviano, la nostra frutta proviene da paesi tropicali, i tessuti che indossiamo ci giungono dalle regioni più disparate, i palloni con cui giochiamo sono confezionati in Pakistan o in India, tanti prodotti industriali sono in realtà frutto del lavoro sottopagato di cittadini, purtroppo anche bambini, di nazioni fragili dove grandissime quote di popolazione cercano di Sopravvivere nonostante la miseria.
Le nostre televisioni satellitari ci consentono oggi di vedere emittenti di ogni continente; grazie a Internet possiamo ricevere notizie perfino dalle popolazioni perseguitate e censurate da governi oppressori. Viviamo un clima, pericoloso o entusiasmante secondo i punti di vista e le situazioni, di piena mondialità. Preferisco la parola mondialità a globalizzazione, perché in questa seconda ho il sospetto che possa celarsi il rischio di una volontà di assimilazione, di omologazione, di costrizione, di annullamento delle differenze.
Mondialità: oggi sono i progressi tecnologici a darcene la misura quasi in ogni momento e ambiente della nostra vita. Ma non è che in passato i popoli rimanessero bloccati nella terra natale. La storia del nostro pianeta è una vicenda di grandi e piccole migrazioni, di conquiste di territori, di invasioni e di eventi bellici per occupare questo o quello spazio, per soggiogare o perfino annientare questa o quella popolazione.
Ora abbiamo paura. Nonostante il fatto che noi italiani, e noi occidentali, viviamo più agiati, protetti, sicuri e longevi che in qualsiasi altra epoca della storia. Sarà allora la paura che prende i ricchi, gli avari, gli egoisti. La paura verso lo straniero che viene a occupare il nostro suolo, a competere con noi e con i nostri figli per un posto di lavoro o per l’affitto di una casa, a procurarci fastidio con la sua stessa presenza sui marciapiedi, ai semafori, davanti alle chiese dove chiede una moneta, a incuterci timore con i reati di cui è autore.
Sono preoccupazioni legittime e comprensibili. Ma sono anche giustificate? Nascono cioè da situazioni negative che sarebbe meglio frenare o addirittura evitare del tutto? Sta emergendo una moderna forma di razzismo o meglio di xenofobia indiscriminata? In nome di una sicurezza che presumiamo minacciata dalle presenze straniere nelle nostre città, possiamo rinunciare ai valori della solidarietà, dell’ospitalità, della condivisione in cui abbiamo fin qui creduto, soprattutto se siamo cristiani?
Il tema è attuale e scottante per tutti. Il Centro Italiano di Solidarietà di Roma ha sempre più numerose persone che provengono dall’Africa, dall’Asia, dall’America Latina, dall’Europa orientale tra i suoi amici che lo frequentano per essere aiutati a uscire dalla tossicodipendenza o da altri problemi, oppure per dar loro una mano come operatori.
Ci sembra una scelta naturale, necessaria; anzi, neppure una scelta, bensì la logica conseguenza dei fenomeni migratori del nostro tempo e del modo d’intendere la nostra filosofia d’intervento, il “Progetto Uomo”.
Ma non è solo un fatto di solidarietà e ospitalità. Ci troviamo dinnanzi a una vicenda epocale, che per certi aspetti si fa dramma e reca con sé anche violenze. Non possiamo guardare a ciò che accade con una visione miope, chiusi in noi stessi. Non dobbiamo accontentarci della sola cronaca, che finisce inevitabilmente per essere quasi soltanto “nera” e ci costringe a riflettere esclusivamente sul presente.
E se ragioniamo in termini più semplici e concreti, per esempio è un pregiudizio che gli immigrati portino via risorse agli italiani, eppure è radicato tanto da essere oggetto di dibattito politico. Basti pensare che nell’ultimo anno gli stranieri hanno pagato tasse per una cifra tre volte superiore a quella di cui hanno beneficiato in termini di assistenza sanitaria e altro. Il saldo per le casse pubbliche è stato largamente positivo. Ma certo non dovrebbero essere questi, un po’ meschini, i pensieri dominanti.
Semmai dobbiamo cercare di capire, e di rafforzare la nostra identità culturale, religiosa, artistica, linguistica, non in chiave oppositiva, ma come atteggiamento necessario per confrontarsi con rispetto con le altre etnie e culture, chiedendo a queste di agire in modo analogo, contro l’omologazione, l’appiattimento della cultura, dei comportamenti, dei consumi…
MA NOI CHI SIAMO?
Per rispondere alle domande che oggi ci poniamo, desidero richiamare tre considerazioni: la prima relativa a chi siamo noi italiani, alla luce della nostra storia; la seconda riguarda il significato di essere italiano o non esserlo nel mondo d’oggi; la terza intorno ai valori, ai diritti e ai doveri dell’umanità di fronte ai fenomeni odierni.
Gli ultimi dati sugli stranieri parlano di quasi 4 milioni di cittadini provenienti da ogni parte del mondo e che attualmente vivono in territorio italiano. Tra poco saranno il 10% dei residenti in Italia, uno su 10. I neonati già lo sono. Anzi, in alcuni comuni del Nord e della Toscana rappresentano un terzo dei nuovi nati: uno straniero su tre.
Sono numeri elevati (troppo?) e destinati, come sappiamo, ad aumentare. Siamo pronti? L’impressione è che ancora non lo siamo. È vero, dunque, che ci aspettano alcuni anni difficili di incomprensioni, di intolleranze, di incerta integrazione. Ma lastoria non si può fermare.
In particolare non dimentichiamo, specialmente chi si sente patriotticamente italiano e basta, che nel nostro sangue, così come nella nostra lingua, nella mostra cultura, nei nostri nomi, scorrono elementi etruschi, celtici, greco-antichi e bizantini, arabi, goti, longobardi, franchi, normanni, spagnoli, albanesi e slavi di vecchia data, francesi e via dicendo.
Quante volte, anche nelle pagine del “delfino”, abbiamo mostrato come il vocabolario che usiamo contiene migliaia di parole che provengono da lingue e culture un tempo lontanissime dall’orizzonte di coloro che abitavano la penisola. I nostri nomi di battesimo e i nostri cognomi appartengono, in origine, alle lingue più disparate, dall’ebraico dell’Antico e Nuovo Testamento dei nomi degli angeli, dei profeti e dei discepoli di Cristo, ai nomi dei mestieri e dei frutti e dei colori dei paesi arabi; dalle voci dei barbari di stirpe germanica che inneggiavano alla guerra, alle spade, alla forza (ma anche alba pace), ai nomi francesi, tedeschi, sloveni, croati e a chi vive nelle Zone di confine.
Noisiamo dunque il risultato di tante mescolanze, di incroci di etnie e di culture. Parliamo dialetti molto diversi tra di loro, al punto che è stata indispensabile la scuola dopo l’Unità d’Italia e la radio e la televisione nel XX secolo perché un lombardo e un siciliano si capissero tra loro (nell’Ottocento, una persona colta di Milano e una di Napoli conversavano tra di loro in francese!). Possiamo cantare l’Inno di Mameli come simbolo di unità nazionale (ma chi si sente davvero “schiavo di Roma”? cosa rappresentano oggi l’elmo e le imprese di Scipio(ne) l’Africano?); possiamo tifare per i campioni sportivi in maglia azzurra; e possiamo sperare che l’Italia sia sempre una terra amata, apprezzata, visitata dai turisti, e che la sua democrazia e la sua economia siano sane e non abbiano nulla da invidiare a quelle di altre nazioni.
PER NON DIRE DEL PASSATO
Ma – e qui siamo nella seconda considerazione – non possiamo certo augurare il male agli altri Paesi, né possiamo esasperare qualsiasi genere di competizione, o sentirci più belli e più bravi. Siamo famosi nel mondo, oltre che per gli spaghetti, la pizza, le auto da corsa e le scarpe firmate, anche per la mafia e le altre criminalità organizzate. Come guardare la pagliuzza nell’occhio altrui dimenticando la nostra trave?
Per non dire del passato: come europei abbiamo colonizzato per secoli gli altri continenti e abbiamo contribuito alla distruzione di intere popolazioni. Come italiani abbiamo tra Otto e Novecento cercato di conquistarci spazi in Africa occupando e combattendo le popolazioni indigene. Nel cuore di Roma, non lontano dal Campidoglio e non lontano dalla sede del Vicario del Papa, una grande via è chiamata Amba Aradan. Oggi ambaradan è anche parola comune per dire ‘grande confusione”. Ebbene, si continua a celebrare con quella strada una battaglia cruenta del 1936, in Etiopia, nella quale il nostro esercito fece largo uso di gas tossici per sterminare migliaia di abitanti locali. E invece le armi chimiche, nel nostro immaginario, appartengono solo agli stranieri cattivi, agli “Stati canaglia”.
Siamo – lo dicono attendibili indagini internazionali – tra i Paesi più corrotti, almeno tra quelli in cui vige una democrazia. Conviviamo con vaste sacche di povertà e di emarginazione, di analfabetismo di ritorno, assistiamo impotenti allo spreco di pubblico denaro per opere pubbliche mai terminate o mai utilizzate. E dobbiamo ricorrere – e lo facciamo volentieri e convinti – alla speranza che i nostri figli, le giovani generazioni, siano migliori di noi perché si possa salvaguardare l’ambiente, ridurre la corruzione e la malversazione degli affari, affinché ci si educhi a stili di vita più sobri e meno drogati, in tutti i sensi.
Ebbene, in questo panorama vengono sempre più numerosi a cercare un paradiso terrestre promesso gli stranieri. La grande maggioranza, nelle terre natali, non possiede risorse, non ha lavoro, non ha la possibilità di mantenere una famiglia. Chi arriva, soprattutto dalle aree extracomunitarie, deve prima superare un percorso a ostacoli durissimo, fatto di denari da consegnare ai gruppi criminali che organizzano le emigrazioni, di viaggi estenuanti e pericolosissimi, di fughe e di clandestinità al loro arrivo. E poi la solitudine, la delusione, per molti l’avvio alla prostituzione e all’accattonaggio, l’alcol e le droghe, le malattie, le giornate estenuanti per qualche lavoretto in nero pagato pochi spiccioli. Quasi una selezione (in)naturale con quei tanti corpi inghiottiti dalle acque del Mediterraneo e qualcuno arso a morte nei container di una nave o di un tir.
Di coloro che resistono, poi, balzano alle cronache i delinquenti, gli stupratori, i violenti: che non son pochi, ma che sono invece pochissimi se confrontati con il numero complessivo degli stranieri in Italia e con gli italiani che commettono gli stessi identici reati. Perché ci dimentichiamo così in fretta di quel giovane senegalese che morì nel Tirreno livornese per salvare un bambino che stava annegando? O di quel tunisino che si è gettato nell’Arno, a Firenze per salvare una donna, o di quel peruviano che a Mestre ha tratto dalle acque dell’Osellino un giovane tossicodipendente salvandogli la vita o di quel kosovaro che si è buttato nel Rienza, presso Brunico, per riacciuffare un pensionato altoatesino scivolato nel torrente? O di quel bengalese che ha salvato una donna che stava per lanciarsi sotto un treno nel Napoletano? O di quella nomade rom di Alba, in Piemonte, colpita da emorragia cerebrale irreversibile e i cui figli ne hanno donato gli organi? E di quelli che hanno sventato furti e rapine e sedato risse?
Non solo non ne abbiamo notizia, o li abbiamo già dimenticati, ma quelli che non son morti per salvare cittadini italiani sono stati rispediti nei loro Paesi, se clandestini. Che bella figura, invece, avremmo fatto e faremmo in futuro concedendo la cittadinanza italiana a qualunque straniero capace di un simile gesto! Oltre tutto salveremmo altre vite umane, dato che gli italiani sono più restii, più pigri, più paurosi in certe circostanze.
STRANIERO ALLO SPECCHIO
Ed eccoci allora all’ultima considerazione. Ha scritto Zygmunt Baumann, il filosofo della società liquida e della società dell’incertezza: «Se si definisce “straniero” chi non si adatta alle mappe cognitive, morali o estetiche del mondo e con la sua semplice presenza rende opaco ciò che dovrebbe essere trasparente; se gli stranieri sono persone in grado di sconvolgere i modelli di comportamento stabiliti e costituiscono un ostacolo alla realizzazione di una condizione di benessere generale; se compromettono la serenità diffondendo ansia e preoccupazione e fanno diventare seducenti esperienze strane e proibite; se, in altri termini, oscurano e confondono le linee di demarcazione che devono rimanere ben visibili; se, infine, provocano quello stato di incertezza che è fonte di inquietudine e smarrimento – allora tutte le società ċonosciute producono stranieri».
In parole più povere, qual è il confine che passa tra me e l’altro? Perché devo avere paura dello straniero? Forse si tratta di sentimenti di rabbia, di insoddisfazione, di fragilità interiore che covo dentro di me e che facilmente indirizzo verso qualcun altro che mi appare come diverso.
Rileggiamo le parole di Julia Kristeva, in “Stranieri a se stessi”: «Lo straniero ci abita: è la faccia nascosta della nostra identità, lo spazio che rovina la nostra dimora, il tempo in cui sprofondano l’intesa e la simpatia. Riconoscendolo in noi, ci risparmiamo di detestarlo in lui. Sintomo che rende appunto il “noi” problematico, forse impossibile, lo straniero comincia quando sorge la coscienza della mia differenza e finisce quando ci riconosciamo tutti stranieri, ribelli ai legami e alle comunità».
In fondo è vero: spesso ci sentiamo noi stessi stranieri. Giovani e adulti, e forse ancor più gli anziani, ci sembra di vivere in un mondo che non ci appartiene, che “non è più quello di una volta”. Ma siamo noi che lo abbiamo trasformato, è il progresso senza freni, è il consumismo dominante, è la perdita di una coscienza critica ma costruttiva che ci fa apparire tutto così diverso, improbabile, lontano dai nostri ricordi.
L’Altro che giunge fin qui a trovarci, che viene ad abitare vicino a noi, non è il portavoce di un mondo ostile che ci minaccia. L’ospitalità del forestiero è stata sacra fin dagli inizi delle civiltà. Anzi, questo incontro che durerà ancora per molti anni è l’occasione per spezzare le catene che ci tengono prigionieri di stereotipi e di costruire un ambiente fondato sulla solidarietà e sulla speranza, sul riconoscimento della differenza e sulla sua accoglienza.
Non dobbiamo avere paura se i futuri italiani avranno antenati africani, asiatici, latino-americani, slavi, rumeni. Alcuni di loro nel giro di qualche decennio si sentiranno realmente italiani, altri resteranno più legati alle proprie origini. Dobbiamo prendere atto che non saranno più ospiti di passaggio, più o meno graditi, ma costituiranno una componente costante e importante della nostra società e, se pienamente integrati, daranno un apporto significativo allo sviluppo di una rinnovata civiltà su un territorio che si chiama Italia.
fonte: CeIS